Non abbiamo potuto seguire tutte le conferenze, un po’ perché non abbiamo il dono dell’ubiquità (molte erano in contemporanea), un po’ perché la nostra presenza è stata sacrificata dagli impegni di viaggio e dagli incontri. Quindi quel che segue è solo una traccia, in particolare sul ruolo dell’arte in questo processo.
Che ruolo può avere l’arte – possono avere le arti – nell’indagare le dimensioni estreme dei nanomondi o del cosmo? L’intervento di Roger Malina, scienziato e astronomo, ha contribuito a chiarire questo ruolo.
Malina ha sottolineato il fatto che il 97% del contenuto di materia ed energia dell’universo è sconosciuto, nel senso che non è percepibile né direttamente né indirettamente (in forma tecnologicamente mediata) dai nostri sensi. Sappiamo comunque che esiste non grazie all’osservazione, ma estrapolando dei dati. Questa porzione di universo – la stragrande maggioranza – è infatti nota sotto il nome di “dark universe”. Dato che il cosmo è una dimensione ormai consueta, anche per una miriade di ragioni concrete (voli spaziali, energia dallo spazio, comunicazione satellitare, esperimenti scientifici…), è necessario “gettare uno sguardo” anche là dove i sensi e i tecnosensi oggi non ci dicono nulla. In questa direzione Malina parla del suo coinvolgimento in un nuovo osservatorio satellitare (il Super Nova Acceleration Probe) che sarà in grado di mappare il cielo, dare la distribuzione della materia oscura e analizzare l’evoluzione dell’energia oscura.
Come entra l’arte in questo? Secondo Malina – che è anche chairman del board di Leonardo (The International Society for the Arts, Sciences and Technology, che a Mutamorphosis festeggiava i 40 anni di attività ) e presidente dell’Observatoire Leonardo des Arts et Technosciences – sta nell’offrire delle visioni, delle nuove metafore, dei concetti, utili sia ad affrontare i nanomondi che il cosmo. Per questo gli artisti – artisti consapevoli delle discipline scientifiche – avranno un ruolo importante nel disegnare la scienza del futuro.
Roy Ascott, docente di Technoethic Art e presidente del Planetary Collegium all’Università di Plymouth, nonché pioniere di media art, si è invece scagliato contro il paradosso riduzionista che considera come il territorio più estremo, ostile e innaturale della mente sia dentro di noi, nei consueti livelli di pensiero e di comportamento.
E’ qui che esistono le più impenetrabili barriere a quella che Ascott chiama “la consapevolezza espansa”. Mentre il surriscaldamento del pianeta avanza, oltre ad un’ecologia della Terra è necessaria anche un’ecologia della mente. Secondo Ascott gli aspetti spirituali della coscienza sono stati ignorati a detrimento dei valori globali e dell’etica umana.
La mente non deve dunque essere “inscatolata”. Tecnologie come la telematica, il cyberspazio, la telepresenza, moltiplicano e “distribuiscono” la mente, l’identità, il sé. Gli artisti devono rompere le barriere della scienza classica per entrare nel mondo quantico delle potenzialità psichiche e spirituali, in un percorso destinato a ridefinire ciò che viene considerato umano.